Considerazioni su Girl Power, il film Netflix a tema femminismo e fanzine

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Su Mecenate Povero parliamo per la prima volta di un film, in cui le fanzine ricoprono un ruolo fondamentale: Girl Power. Non una recensione, ma una piccola riflessione post-visione (con possibili spoiler).

Questo sarà un blog un po’ atipico, dato che non parleremo di un’autoproduzione effettiva ma di una pellicola in cui la protagonista è praticamente una fanzine, a tal punto da dare il titolo al film: Moxie, tradotto in italiano in Girl Power – La rivoluzione comincia a scuola (sigh).

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Con Valeria Foschetti della Fanzinoteca La Pipette Memoir, in questo periodo stiamo facendo una ricerca a tema “fanzine/femminismo/attivismo” (presto saprete perché!) e proprio il 3 marzo è uscito questo film diretto da Amy Poehler (la quale interpreta anche la madre della protagonista). Questa ci è sembrata una coincidenza carina, quindi lo abbiamo visto praticamente il giorno stesso. Ha catturato la nostra attenzione non tanto perché parla di femminismo (abbiamo talmente tanto da recuperare su libri/film/altro sul femminismo che questo film avrebbe anche potuto aspettare), ma soprattutto perché la protagonista sceglie di fare attivismo autoproducendo la propria fanzine… e non solo molti i film a parlare di fanzine!

Il titolo del film è stata una delle prime cose a farci storcere il naso ma, scoperto che il vero titolo era un altro, da criticare sono altri (e nemmeno i responsabili dell’adattamento del film, dato che la pellicola è tratta da un romanzo di Jennifer Mathieu che Mondadori ha stampato con il titolo di Girl Power, con tanto di sottotitolo piatto. Quindi, se bisogna incolpare qualcuno, quella è la Mondadori).
Ma lasciamo perdere il titolo del film.

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“Moxie” è il titolo della zine che la protagonista, Vivian, una ragazza al terzo anno di liceo, inizia a stampare e a distribuire a scuola dopo alcuni episodi di sessismo che coinvolgono non solo i suoi compagni di classe, ma anche il corpo scolastico (la preside, in particolare, è così irritante da risultare finta). Di ispirazione per lei è una valigia piena di fanzine degli anni Novanta, l’epoca del movimento Riot Grrrl e delle Bikini Kill (ho perso il conto delle volte in cui durante il film fanno partire Rebel Girl). Questa valigia appartiene alla madre di Vivian, un tempo attivista in nome della lotta contro il patriarcato.

La pellicola in un certo senso è ambiziosa, perché mira a toccare tantissimi temi: le modalità diverse in cui il corpo delle ragazze e dei ragazzi viene visto dagli altri (cosa che ci ha ricordato quel fatto italiano in cui le studentesse di una scuola di Roma si sono ribellate al proprio preside, il quale aveva vietato le minigonne perché “ai prof. cade l’occhio”), la transessualità, il razzismo, il rapporto genere/sport e, ultimo ma non ultimo, la necessità del femminismo di essere intersezionale. Peccato che tutte queste tematiche siano trattate con superficialità, come quando il personaggio di Poehler afferma che il suo gruppo di femministe alla fine non funzionò perché non erano state “intersezionali”, senza spiegarne il senso.

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L’intersezionalità – che in questo film dovrebbe essere fondamentale, dato che Vivian è una ragazza cis bianca a cui non manca nulla (a parte un padre che sia anche solo un minimo interessato a lei, cosa che però scopriamo solo verso la fine del film) – viene accennata qua e là attraverso il rapporto tra la protagonista e la sua migliore amica, Claudia, una ragazza orientale (non ci ricordiamo se viene specificato se cinese, coreana o altro) che ha più pressioni e meno privilegi rispetto a lei. Troviamo altri cenni quando alcune studentesse di colore affermano di “non volere nessuno che tocchi loro i capelli senza permesso” e la presenza un po’ sfuggente di una ragazza in sedia a rotelle, che però ritroviamo in tre-quattro scene in tutto. Non ricordiamo nemmeno se appare in una delle ultime scene del film, quella che dovrebbe essere la più aggregativa: le studentesse e gli studenti si radunano fuori dalla scuola e a turno cominciano a parlare delle proprie discriminazioni, salendo su un panettone o qualcosa del genere. A quel punto sarebbe stato “interessante” ricordare che a scuola c’è anche una ragazza in sedia a rotelle, ma così non è stato.

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Del resto a quella scena si arriva per un altro motivo, l’ennesimo buttato lì: una studentessa svela all’autrice di Moxie di essere stata stuprata e decide di chiederle aiuto. Una bomba che cade giù dal cielo all’improvviso e che viene usata solo per accompagnare la protagonista verso il finale del film e del suo percorso di formazione personale.

Insomma, Girl Power potrebbe essere carino anche solo per scoprire un pezzetto della storia delle fanzine e del loro potenziale, anche in un’epoca in cui tutti hanno un mezzo più immediato per esprimersi (i social, i blog, i podcast, tutto l’internet…), ma il suo difetto più importante è accennare a tantissime cose rimanendo molto approssimativo. Tra l’altro, a fine visione, abbiamo avuto la brutta sensazione che il film relegasse il femminismo alla fase di “ribellione adolescenziale”, una fase che poi passa e che, quando si cresce, finisce in una valigia dei ricordi da nascondere sotto il letto.